Celle Aperte – Testimonianze dal Carcere

 

Mercoledì 10 agosto le sezioni ordinarie del carcere di Rimini hanno aperto le porte a nuovi ospiti esterni.

Eccezionalmente, grazie al Direttore d’Istituto Maria Martone e al supporto dell’Area Educativa, del corpo di Polizia Penitenziaria e del Cappellano d’Istituto Don Nevio, è stato possibile per una ventina di volontari da tempo impegnati all’interno della Casa Circondariale accedere alle celle e trascorrere una mattinata assieme ai detenuti.

Una giornata cui ci si preparava da tempo: un momento delicato ed emozionante, che ha visto il lavoro sinergico e la collaborazione di tutti: detenuti, operatori e volontari delle tante realtà di espressione diocesana che animano la casa circondariale e gli operatori del Terzo settore.

Abbiamo chiesto ad alcuni volontari di raccontarci la loro esperienza: Michela, Ilaria, Paola e Chiara hanno accettato l’invito, di seguito le loro testimonianze.

Le testimonianze

Michela de Lisa


Quando è arrivato il momento di andar via, a fine giornata, ho provato una sensazione strana… mentre riprendevo il mio cellulare dall’armadietto dopo diverse ore, qualcuno esclamava: «Mi sembra di essere stato qui un mese!». Ritornare nel mondo ‘reale’, quello al di là della pesante porta color verde bosco, mi stava costando un po’ di fatica.

La giornata era volata via in tutta fretta ma, frattanto, il tempo si era come fermato.

Un po’ come succede, in fondo, a chi al di qua della pesante porta verde bosco ci abita. Il fuori e il dentro, con il loro scorrere del tempo cosi disallineato e i loro mezzi cosi dissonanti, si incontravano su quell’uscio. Un po’, pensavo, come deve succedere a chi, presto o tardi, smette di abitare quelle mura. Ed io, dal mio canto, ero come rimasta incastrata li: occhi negli occhi e orecchie nei cuori. Ho capito che, in quelle ore, in quelle mura che in parte alcuni di noi conoscono così bene, i nostri due scenari speculari si erano mescolati. Il mondo esterno con le sue remore o quello interno con le sue contraddizioni, seduti alla stessa tavola. Curiosità che diventa conoscenza e timore che si trasforma in consapevolezza. Avevo gli occhi pieni di sguardi, le orecchie piene di storie e il cuore pieno di accoglienza (e lo stomaco pieno di piattoni deliziosi). E li, sulla soglia del mondo esterno, io provavo un po’ di nostalgia. Fermavo tra i ricordi istantanee vivide di momenti intensi e preziosi come quando si ripone in libreria un libro concluso che ti ha tirato un pezzetto di cuore e da cui ormai è tempo di separarsi. Tornata a casa, ripensavo a due delle frasi che mi hanno colpito di più tra le tante donate da chi ci aveva accolto nella propria dimensione. Erano più o meno così: «oggi è stato come non essere in carcere» e «se ci fossero più giornate come questa, sarebbe tutto in discesa qui». E mentre mi ripetevo le parole ascoltate mi accorgevo di quanto fossero incredibilmente affini a ciò che provavo io stessa, ospite per un giorno di un mondo altro che vive all’ombra di tutti noi, abitato da un loro che si contrappone a un noi. Perché, in fondo, sono giornate come quella vissuta il 10 agosto a liberarci. È la conoscenza ad affrancarci dalle sbarre del pregiudizio, è la consapevolezza a spezzare le catene della paura; sono la condivisione, il dialogo e la mutua comprensione ad unirci e a guarirci dalla sfiducia e dal risentimento che ci imprigionano. Per questo, auguro a tanti di poter vivere esperienze di questo tipo. E provo una immensa gratitudine nei confronti di chi, dall’esterno e dall’interno della Casa Circondariale di Rimini, ha reso possibile vivere Celle Aperte. Qualcuno mi ha chiesto cosa avessi provato nel visitare il carcere, riferendosi alla sua parte di solito invisibile e nascosta anche a chi, come me, ne visita spesso tutto il resto. Insomma, che impressione ho avuto nel visitare e abitare per qualche ora le celle. La verità è che le celle, i corridoi, le sbarre e tutte quelle cose ‘segrete’ che di solito animano la nostra curiosità quel giorno, per me, sono rapidamente passate in secondo piano. Certo, è di sacrosanta importanza osservare e avere contezza di ciò che di solito idealizziamo, condanniamo o su cui fantastichiamo.

Però io, quel giorno, ho posato lo sguardo su chi il carcere lo abita e lo vive.

Nella sua quotidianità perfettamente scandita, tra le storie, le lingue, i bisogni, le paure, i desideri, la solidarietà. Stretti attorno agli stessi tavolini a guardarci e poi vederci, riconoscerci e poi conoscerci, ci siamo sentiti tutti un po’ a casa.
L’accoglienza e la grande ospitalità che tutti noi abbiamo ricevuto in dono quel giorno ci hanno emozionato e permesso di sentirci a nostro agio, e oggi mi comunicano due cose molto importanti: la gratitudine verso chi si spende per donare accoglienza e disinnescare la pericolosità degli stigmi e, cosa (forse) più importante, la fame di riscatto e riconoscimento. Poiché chi abita giorno e notte i piccoli spazi blindati di cui siamo stati ospiti non è né una vittima da accudire né un “caso perso” da sopprimere. Abbiamo la responsabilità e la scelta, in quanto esseri umani prima ancora che cittadini portatori di diritti, di accogliere la richiesta di riconoscimento, dignità e rispetto di chi “paga il suo debito con la giustizia”. Fermiamoci a guardare, per un istante, negli occhi dell’altro scomodo: intravedremo noi stessi.

 

Chiara Fabbri


Da circa un mese sono una volontaria nella Casa Circondariale di Rimini e il 10 agosto ho preso parte a una giornata con i detenuti della Quinta Sezione – Braccio Corto, che detta cosi fa quasi sorridere. Non chiedetemi di raccontarvi cos’è stato salire quelle scale, oltrepassare quei cancelli, sentire voci, incontrare vite e incrociare sguardi. Credevo di non averne il coraggio. Non vi racconto l’odore, il calore, il cibo, le sbarre, le finestre schermate. Il peso di vite come tante, eppure così diverse: tanti corpi, troppe ossa, troppi umori. Cellule che si aggregano in universi di solitudine. I giorni – tanti giorni – sempre uguali. Non vi racconto i sorrisi bucati dal tempo, le parti fragili, i dubbi, il cercare di sopravvivere alle proprie crepe. Le aspettative infrante, i vuoti senza risposte, il tirare avanti nonostante i pesi che salgono e l’umore che scende.

È una strana materia quella di cui è composta il carcere: c’è un prima, un dopo, e c’è un dentro che dovrebbe preparare al fuori.

Come un bambino che si prepara a nascere o magari a rinascere. Come sono rinata io una volta uscita – dopo un solo giorno -, per tutto lo spazio che ho cercato di farmi entrare dentro, oltrepassato l’ultimo cancello che al mattino era stato il primo. Non posso nemmeno immaginare la sete di aria, luce e vita che può avere una persona quando esce dopo anni. Non chiedetemi se queste parole hanno un senso o raccontano una storia. Quando raccolgo parole dalle pieghe di un’esperienza spero solo che tutto si senta e riviva. Non sono brava a raccontare, ma posso dire che entrare in un carcere – un carcere di celle e di sbarre – lascia i lividi. Inciampi nella vita di qualcuno e ti rimane il segno.
Vorrei irrigare di sensatezza i pensieri e lasciar parlare la pelle per dirvi che ho ascoltato, accolto e ringraziato, ho contemplato, condiviso, mi sono lasciata attraversare…ho riso, vibrato e lasciato andare… sono rimasta in silenzio, senza finzioni. Mi sono sentita e mi sono commossa. Mi è piaciuto.
E sapevo che era bene cosi. In un luogo dove l’anima rimane a guardare, l’attenzione è l’unica preghiera che ho saputo recitare. Ad una principiante della preghiera come me, l’unica cosa che interessa è permettere al cuore di contemplare. E imparare davvero ad accogliere il bene.
Forse è questo ciò che intendo per fede: quella che rinnoviamo anche nella cattiva sorte, che ci tiene legati ai luoghi; quella sensazione forte di appartenenza che ci fa tornare a dire “qui” anche quando il buonsenso chiamerebbe altrove. Se fosse qualcuno dei ragazzi dentro a chiedermi, ora, com’è andata, prenderei in prestito parole lette non ricordo dove: “Siamo friabili e pervasi di grazia”. Di quella grazia dignitosa che appartiene a tutti nei momenti di reale sofferenza, quando la vita confonde la disperazione e la speranza. Perché mentre camminavo per le Celle Aperte di quei corridoi, che sanno di abisso e cibo stracotto, mi sono resa conto che quel posto può essere la casa di tutti: degli inquieti, degli scappati, di chi sa pregare e di chi sta imparando a farlo. E quindi è anche casa mia.

 

Ilaria Cicchetti


Entrare in carcere significa atterrare su un altro pianeta, con regole diverse, abitudini diverse, volti e voci diverse da quelle a cui siamo abituati. Perfino l’aria e il tempo hanno un diverso peso e una diversa scansione qui. Ho l’impressione che per comprendere a pieno il posto in cui mi trovo io debba imparare una nuova lingua: si parla di bracci, di sezioni, di celle, di domandina, di autorizzazioni, di burocrazia, di aria…

Il rumore metallico delle chiavi si lascia dietro l’eco di voci in lontananza, che risuonano e si rimescolano nel grande corridoio della sezione 1.

I detenuti escono dalle loro celle incuriositi. Ho cercato di tenere a mente quanto ci è stato detto un minuto prima: qui dentro siamo ospiti. Provare a pensare di essere a casa di qualcun altro è utile. Prima di entrare in una cella si chiede il permesso; prima di dare del tu ad una persona più anziana si chiede il consenso; prima di porre domande intime si deve raggiungere un rapporto confidenziale. Sono queste attenzioni a dare ordinarietà ad una situazione che esula dall’ordinario, a restituire ad un detenuto la dignità che a volte dimentica di possedere. Sono queste piccole forme di rispetto che fanno dei ragazzi della cella 3 e di me persone più vicine di quello che potrebbe sembrare. Atmosfera di festa; a volte ho come l’impressione di ritornare al refettorio dove pranzavo alle elementari, caotico e pieno di gioia. Ci sediamo a tavola e la premura che i detenuti hanno nei nostri confronti è impressionante. C’è una grande lezione dietro ad una tavola apparecchiata a dovere nonostante il legno rotto della gamba; dietro all’assicurare i pochi sgabelli ai propri visitatori; dietro alla condivisione della propria vita con un estraneo. Sono riuscita a captare due odori dominanti durante la giornata: tabacco e sapone. Questi due profumi mi dicono qualcosa: che qua dentro occorrono distrazioni, e che ricevere visite può spingere alla cura di sé e del proprio ambiente. Non credo si racconti abbastanza quanto sia importante mettere in dialogo il mondo del carcere con quello esterno. Non c’è stato un attimo in cui io mi sia ricordata di avere più di quattro porte chiuse a chiave alle spalle. Io sono consapevole che un detenuto che vive da anni in reclusione ricordi a se stesso più volte di quelle porte. Sono consapevole del dolore profondo che un uomo possa sperimentare quando vede che la sua vita precipita dentro queste mura. Tuttavia non abbandono l’idea per cui le relazioni possano costruire ponti, e se anche per un solo istante fossimo riusciti a fare dimenticare a chi il carcere lo vive ogni giorno di quelle quattro e passa porte di distanza dal mondo esterno, allora l’esperimento di Celle Aperte potrebbe dirsi riuscito. Potrebbe essersi creato qualcosa di grande, uno sguardo (seppur momentaneo) libero sulla propria vita, edificato attraverso l’incontro tra detenuti e volontari. Il regalo più grande che sia noi che loro possiamo portarci a casa.

 

Paola Eletta Galasso


Un San Lorenzo speciale il mio 10 agosto 2022. Lo ricorderò sempre: atteso con trepidazione. Saremmo entrati nelle “case” dei nostri amici detenuti. Alcuni già da noi conosciuti, perché partecipanti ai nostri incontri di lettura “dentro le pagine” o al cineforum “Cinema d’evasione”, altri, volti nuovi.
L’incontro “fuori” con gli altri volontari è fissato per le 8.45 e poi “dentro” per iniziare la nostra giornata speciale. Dopo i corridoi già conosciuti, saliamo le scale ed entriamo nella sezione. E subito ci accoglie un ospite inappuntabile che ci introduce alle criticità della sezione (purtroppo proprio in quelle ore testimone di un episodio molto triste) e ci conduce nelle celle cercando di farci “scivolare” oltre le situazioni difficili. Un ottimo padrone di casa che ci tiene comunque a fare una bella figura con i suoi invitati. E così entriamo in una cella che scoprirò ospitare un detenuto dalla immensa cultura. Originario di uno stato della ex-Jugoslavia ci ha subito fatto vedere i suoi numerosissimi quaderni pieni di riflessioni, nozioni, appunti di geografia, di storia: fogli pieni di una bellissima calligrafia, pieni di vita, di sapere. E così a seguire, si avvicendano volti curiosi di conoscere questa novità nella loro altrimenti immobile giornata. Tanti volti, tante Persone, tanti uomini; ci sediamo tutti insieme nel corridoio e ci raccontiamo e si raccontano…come essersi sempre conosciuti. Non manca il “momento caffè”: un caffè speciale con la “schiumetta e la scorza di limone”. Eccezionale! Quanti racconti, quanta dignità, mai un piangersi addosso. E poi è il momento del pranzo che consumiamo nella cella che ci ospita: un pranzo che si trasforma in un momento di condivisione di desideri, sogni, consigli di luoghi da visitare nelle proprie terre di origine, racconti di svariate esperienze lavorative. In breve, quasi dimentichi di essere in un carcere e diventa un pranzo tra vecchi amici.
E così, troppo velocemente, è passata la mattinata. Alle 13 scendiamo negli spazi comuni. Possiamo scegliere se restare nella cappella, adibita a “locale” dove suonare la chitarra e cantare qualsiasi tipo di canzone (il “karaoke” come è stato definito dai detenuti), o andare fuori, “all’aria”, nel campo di calcio dove si sta disputando una partita degna dei più bei film di Salvatores, o in un altro spazio dove fare due chiacchiere tranquille. C’era un gran movimento. È stato bellissimo vedere questi ragazzi vivere tutte le situazioni “offerte”. Io personalmente ho trascorso queste ore con uno di loro che ha voluto farmi da Cicerone e, contemporaneamente, mi ha raccontato il motivo per cui è lì. Un ragazzo dai modi signorili, grandissima educazione, grande cultura e voglia di “conoscenza”. Alle 15 i nostri amici salgono per una mezz’oretta nelle celle e noi volontari ci ritroviamo in chiesa per trasmetterci qualche riflessione. Ma poco dopo cominciano ad arrivare, numerosi, i detenuti e allora decidiamo di spostare tutte le panche per dare inizio ad un importantissimo momento di condivisione e comunione, tutti insieme, detenuti e volontari. Il titolo che vorrei dare a questo incontro è GRAZIE. Un grazie unanime da parte dei detenuti a noi per aver reso “diversa” e più viva la loro giornata e un grazie altrettanto collettivo da noi a loro per aver riempito il nostro cuore di emozioni. Bello sentir dire da molti di loro “Sarebbe da ripetere con più frequenza!”. Questa frase ha fatto crollare i nostri timori del giorno precedente.

 

Storie dalla Caritas – Il Carcere e Leonard

Leonard ha 27 anni, è nato in Albania ma è in Italia da quando ha 3 anni. Oggi lavora in una Cooperativa Sociale del territorio e si occupa del mantenimento del verde nel comune di Cattolica.

È entrato in carcere quando aveva 24 anni, ne è uscito 2 anni e mezzo dopo.

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Sperimentare l’autenticità, la fiducia e la vicinanza, essere capaci di costruire nel tempo delle relazioni che ci facciano sentire meglio con noi stessi e con gli altri. 

Questa, forse, è una delle chiavi per vivere con maggiore gioia e pienezza la propria vita.  

Per chi vive in carcere il tema delle relazioni acquista un significato ancora più forte e urgente.  

La reclusione rappresenta spesso una condizione di isolamento e lontananza in un luogo che per lo più viene interpretato come spazio di contenimento e punizione. 

L’incipit del nostro ordinamento penitenziario nell’art. 1 riporta: “Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi”. Si sottolinea quindi quanto la relazione con il mondo esterno rappresenti un aspetto indispensabile del trattamento, da proteggere e garantire anche durante la detenzione. 

Sono diversi anni che Caritas Rimini Odv promuove – dentro e fuori il carcere – interventi e azioni volte al reinserimento sul territorio, all’inclusione, al coinvolgimento della comunità, affinché la reclusione sia una concreta occasione di riscatto e possibilità di ripartenza.

Un’impresa resa possibile grazie alla sinergia con l’Area Educativa penitenziaria, i servizi pubblici e con le altre voci della nostra città che si spendono da anni all’interno della Casa Circondariale promuovendo e rafforzando questa direzione, in particolare con il Centro per le Famiglie del Comune di Rimini, con l’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, con la Cooperativa Sociale Cento Fiori e con l’associazione Dire Uomo.

Grazie inoltre al sostegno dei Piani di Zona, sono stati possibili numerosi interventi preventivi e riparativi che, attraverso il lavoro dei volontari e degli operatori, hanno inciso positivamente, sia all’interno del carcere che all’esterno: è fondamentale ricordare che ci sono famiglie che attendono un marito o un papà di ritorno.

Caritas Rimini ODV e Centro per le Famiglie del Comune di Rimini hanno inaugurato lo scorso anno un dialogo epistolare tra alcuni detenuti e una scuola primaria del territorio, il Centro Italo Svizzero, con cui vi era già stato un primo scambio nel 2020 attraverso i biglietti di auguri di Natale.

I temi affrontati quelli delle relazioni, dell’amicizia, del ruolo dell’adulto e il senso del crescere, riflessioni sul tema dell’uguaglianza e della stima di stima di sé.

I detenuti sapevano di scrivere ad una classe di quarta, i bambini e le bambine nel corso dell’anno (anzi degli anni) sono stati accompagnati a “raccogliere indizi” ed esercitare la curiosità e mettere in gioco il proprio pregiudizio, per scoprire chi mandava loro (in una scatola di latta con un fiocco rosso) dei bigliettini con riflessioni, spunti, idee…

In questo “dialogo a distanza” tramite cartelloni, disegni, lettere, i detenuti hanno riflettuto e offerto consigli, esperienze e ascolto alle bambine e ai bambini che si interrogavano sull’amicizia, la vera amicizia, i sentimenti, l’essere grandi. E’ stata un’esperienza ricca e di vero scambio che si è deciso di proseguire con la stessa classe -quest’anno in 5° (da poco ha superato l’esame finale).

 

 

Poi è arrivato il momento di conoscersi personalmente. Faccia a faccia.

Ma incontrare però un detenuto fuori dal carcere e – soprattutto – in una scuola elementare, non è un semplice affare. Era necessario fare una “richiesta di permesso premio”.

Una valutazione delicata che è maturata assieme a Leonard, il ragazzo all’epoca detenuto e all’amministrazione penitenziaria dopo mesi di osservazione trattamentale dove si sono stimate la costanza del giovane nel partecipare alle attività educative proposte, la motivazione, la perseveranza e la buona condotta della persona che, avendo maturato i requisiti che la legge prevede, era nella condizione giuridica di poter accedere a questo -comunque non facile- beneficio premiante.

Leonard ha 27 anni, è nato in Albania ma è in Italia da quando ha 3 anni. Oggi lavora in una Cooperativa Sociale del territorio e si occupa del mantenimento del verde nel comune di Cattolica.

È entrato in carcere quando aveva 24 anni, ne è uscito 2 anni e mezzo dopo.

Grazie alla preziosa e insostituibile collaborazione con l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna di Rimini (U.E.P.E.), si è dato finalmente corpo al sogno di vivere una giornata speciale. Un’occasione di riflessione sul proprio percorso, sulla propria detenzione vissuta in modo catartico, in favore di un’assunzione di responsabilità. Agendo in modo disinteressato e per il bene comune.

La classe dal canto suo, accompagnata dagli insegnanti, ha lavorato sull’abbattimento del pregiudizio sul carcere e la stereotipizzazione del “detenuto”, uscendo dal dualismo buoni/cattivi.

Leonard ha conosciuto la Caritas attraverso il Caffè Corretto, un momento di confronto in carcere, nel quale i detenuti possono confrontarsi con volontari e operatori su alcune tematiche.

 

Un importante momento di scambio, relazione, amicizia… Ed è lì che è nata l’amicizia con Viola, e poi il percorso che lo ha portato a incontrare gli studenti.

“Quello che manca di più, in carcere, è la relazione con la famiglia, con gli amici. Non hai il cellulare, non puoi chiamare sempre, gli orari di visita sono sempre troppo pochi. Però ho incontrato persona in gamba, che mi hanno aiutato a cambiare” racconta Leonard.

Così è arrivato giorno stabilito per l’incontro in classe, in una calda mattinata di fine anno scolastico.

Una giornata coinvolgente, emozionante, dove ognuno ha saputo tirare fuori la propria parte migliore. Un momento profondo e semplice allo stesso modo, come sanno essere gli incontri con bambini e con le persone che hanno realmente riflettuto sul senso della vita e su cosa vale davvero.

Si è parlato in cerchio, riso, ascoltato, cantato, disegnato; si è pranzato insieme e condiviso il tempo e lo spazio dei giochi dell’intervallo lungo dopopranzo.

Gesti semplici, autentici, cose di cui tutti abbiamo bisogno per stare bene e crescere nel cammino della vita.

Si è trattato di un progetto ambizioso sotto molti aspetti, emotivi, pedagogici, umani e burocratici, che ha mostrato chiaramente come la collaborazione tra Istituzioni e Terzo Settore –professionisti e volontari- possa realizzare interventi innovativi e riparativi capaci di valorizzare i percorsi personali e le possibilità che la Comunità ed il Territorio offrono.

Ne è valsa la pena? È bastato vedere i sorrisi, gli sguardi, i giochi tra Leonard e i bambini, per darsi una risposta.

Storie dalla Caritas – I corridoi umanitari

Yacine ha appena finito l’esame di terza media. È andato bene, ma non perde tempo: ora lavora come aiuto-cuoco in un ristorante della riviera riminese. Parla italiano fluente, forse avvantaggiato che nel suo paese – la Repubblica Centroafricana – si parla francese. Ha una bandana in testa, un sorriso contagioso, ma all’inizio è timido nel raccontarsi. 

“Sono scappato dal mio paese nel 2019, a causa della guerra. Sono arrivato in Niger e sono stato accolto in un campo per rifugiati. Eravamo in tanti, più di 500, di cui pochissimi dal mio paese. Sono scappato da solo, i miei genitori non ci sono più. È lì che ho conosciuto la possibilità dei Corridoi Umanitari. Ho fatto dei colloqui con Caritas Italiana, e sono arrivato a Rimini a fine giugno 2021”. 

 

Yacine è nato nel 1999, ha 21 anni e fin dal suo arrivo ha dimostrato di volersi integrare qui.

“Non conoscevo l’Italia prima, non ho scelto dove andare. Volevo solo scappare. Quando mi hanno informato che sarei arrivato qui, ho cercato Rimini su Google, mi è subito piaciuta. Sto bene, forse studierò ancora. Vorrei specializzarmi, sono giovane”. 

 

È nato a Carnot, un piccolo paese vicino al confine con il Camerun, ma a 10 anni si è spostato a Bangui, la capitale.

“Mio fratello ha 14 anni, ed è ancora lì. Lavoro per permettergli di vivere, ma vorrei portarlo qui con me”.

 

La Caritas di Rimini lo ha accolto alla Laudato Sii, in via Isotta degli Atti, dove c’è anche l’ufficio del settore Immigrazione della Caritas Diocesana. Gabriele, operatore, conferma che “Yacine è veramente in gamba. In tre mesi ha imparato la lingua. Gli auguro di trovare la propria strada”. 

 

La cosa più difficile è creare una rete di amici, di attività, di relazioni. Yacine gioca a calcio e ogni tanto si ritrova con qualche amico per una partita. Ma come comunità riminese è importante essere sensibili a questo tema: anche solo un saluto può fare la differenza!

 

I Corridoi Umanitari nascono dalla collaborazione tra istituzioni – Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e Ministero dell’Interno – e società civile – nello specifico Caritas Italiana, Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche e Tavola Valdese. Si tratta di un programma di trasferimento e integrazione in Italia rivolto principalmente a migranti in condizione di particolare vulnerabilità: donne sole con bambini, vittime del traffico di essere umani, anziani, persone con disabilità o con patologie.

Caritas Italiana si è occupata nel tempo dell’accoglienza dei beneficiari al loro arrivo in Italia, garantendo alloggio e assistenza economica per il periodo di tempo necessario all’espletamento dell’iter della richiesta di protezione internazionale. 

Il progetto è stato commentato da Papa Francesco:

“Guardo con ammirazione all’iniziativa dei corridoi umanitari (…) sono la goccia che cambierà il mare”.

Ad oggi sono due i ragazzi accolti a Rimini attraverso i Corridoi Umanitari, centinaia invece in tutta Italia. “È un gesto di tanta umanità – dice il Cardinale Matteo Zuppi, Arcivescovo di Bologna e Presidente della CEI – frutto di solidarietà della quale ringrazio tanto, ma è anche un appello forte alla responsabilità politica, culturale e sociale di tutti verso il cammino dei migranti”.

Proviamo ad esserci, vogliamo esserci. È questo lo spirito guida della Caritas: riempire la distanza sociale con l’umanità, curare la solitudine costruendo umanità.

Storie dalla Caritas – Fondo per il Lavoro

donazione fondo per il lavoro

Avere cura di una persona, oltre le sue fragilità, è una vittoria di tutta la comunità. Il lavoro è sicuramente uno degli elementi principali che può ridare dignità all’individuo, che torna così a sentirsi membro attivo della Comunità e, al contempo, a potersi nuovamente immaginare in una prospettiva futura.

È per questo motivo che nel 2013 come Caritas Diocesana abbiamo deciso di attivare il Fondo per il Lavoro, con l’obiettivo di creare occupazione, attraverso incentivi economici, per l’avvio di nuove attività lavorative e/o mediante l’assunzione di persone disoccupate o inoccupate .

Dall’ inizio della nostra operatività ad oggi (31 maggio 2022) abbiamo preso in carico più di 900 richieste di iscrizione al Fondo per il Lavoro, da parte di persone disoccupate e/o inoccupate, di cui 60 negli ultimi 5 mesi. Per ognuno viene creato un percorso basato su contatto, dialogo e accoglienza; ma anche confronto e valutazione delle possibilità di invio del nominativo alle aziende convenzionate.

 

Ora abbiamo bisogno del tuo aiuto. Le risorse del Fondo sono quasi esaurite, ma vogliamo continuare con il lavoro. Puoi fare una donazione all’IBAN che trovi in fondo all’articolo, per permettere a tante persone di ricevere il supporto necessario.

Beatrice, riminese, descrive il suo tirocinio come “una vera salvezza”. È ausiliaria presso una struttura dell’Associazione Papa Giovanni XXIII, spesso a contatto con la disabilità e marginalità.

“Ho capito che il posto di lavoro è uno spazio dove poter anche raccontare di me, chiedere una mano. Per più di 20 anni ho mantenuto separate la vita lavorativa da quella personale, ma nei momenti più difficili non ce l’ho fatta più. In questi due anni ho imparato ad essere una persona, non solo una lavoratrice.”

Il Fondo per il Lavoro l’ha aiutata a riscrivere il curriculum ed aprirsi a nuove possibilità.

“Mi piacerebbe fare il corso da OSA (Operatore Socio Assistenziale) e continuare a lavorare nel socio-sanitario. Chiara è stata la mia super tutor, mi ha seguito in maniera precisa. Sono davvero riconoscente.”

Ha un bagaglio personale di esperienze ricco che desidera mettere a frutto, grazie al lavoro del Fondo ha creduto in sé stessa e mosso i passi verso l’autonomia. “Sogno un contratto a tempo indeterminato, ma confido che arriverà. Cerco di fare le cose al meglio, per fortuna non sono più sola.”

 

L’attività del Fondo si è fin da subito dimostrata significativa: in 8 anni sono stati attivati oltre 70 tirocini, dei quali circa la metà sono diventati contratti di lavoro stabili.
A questi si sommano 68 contratti a tempo indeterminato e 107 a tempo determinato. Numeri che dimostrano quanto sia importante costruire reti e collaborazioni per dare risposte sinergiche sia tra privati che con il pubblico e le istituzioni.

In questi anni abbiamo creato una rete di imprese sul territorio che va proprio in questa direzione: creare un ponte solido con chi investe sul territorio. Fanno parte di questa rete più di 140 imprese, che hanno già inserito almeno una persona nel proprio organico.

Le aziende che sottoscrivono la convenzione con il Fondo per il Lavoro danno testimonianza che il lavoro può essere un percorso in cui la persona può costruire la sua dimensione a beneficio dell’intero sistema che vi ruota attorno.

Jacinto viene dalla Spagna, ma ha vissuto diversi anni in Francia.

“Sono arrivato in Italia ormai 30 anni fa, per amore di una ragazza romana. Oggi ho un impiego presso un’azienda di Tavullia grazie al Fondo per il Lavoro. Mi occupo dell’assemblaggio di quadri elettrici”.

Ha 58 anni e a Settembre 2021 ha avuto un ictus improvviso che lo ha bloccato in casa per più di 6 mesi. “Mi hanno aiutato gli amici, da solo non ce la fai in quei momenti. Ma non ho avuto timore di chiedere una mano.” Abita nel piccolo borgo di Montegridolfo, in Valconca, in una casa con quasi due ettari di terra che coltiva con passione. “Non ho mai visto Valentino Rossi, anche se l’azienda presso la quale lavoro è proprio dietro l’accademia VR46. Magari un giorno riuscirò a stringergli la mano.”

Il Fondo per il Lavoro dimostra – in maniera collaterale – che la risoluzione di una situazione di fragilità comporta meno necessità di sostegno da parte del settore pubblico e, quindi, una spesa pro capite di servizi inferiore.

Cosa puoi fare tu?

Fai conoscere la rete!

Trovi più informazioni su www.fondoperillavoro.ite su www.caritas.rimini.it

Il lavoro del fondo è possibile grazie alle donazioni.

Se puoi, dona ora tramite bonifico: » Caritas Rimini ODV

IBAN IT47S 06230 24206 000043223695

 

Arianna – progetto RiordinAri

Mi chiamo Arianna, ho 40 anni.

Vivo a Rimini, una città dinamica che mi rappresenta con la sua moltitudine di sfaccettature.

Da qualche anno a questa parte ho trasformato il mio bisogno di riorganizzare in modo semplice e funzionale gli ambienti di casa e di lavoro in un servizio per la comunità.

Il mio progetto di chiama “RiordinAri” e aiuta concretamente chi desidera non avere più caos e sprechi in casa o al lavoro, ma non sa da dove cominciare.

Sono diventata volontaria di Caritas durante lo scorso Natale. Proprio durante la festività ho voluto fare un regalo a chi non è abituato a riceverne e mi sono offerta come volontaria in mensa.

Ho conosciuto Antonella, referente dell’area Volontario della caritas di Rimini, e le ho raccontato come il mio lavoro mi porti a raccogliere abiti donati dalle persone che mi contattano per riorganizzare il guardaroba, che in seguito smisto e consegno alle realtà della zona che aiutano i più bisognosi.

Il mio servizio è un mix di emozioni…
poter contribuire attivamente al sostegno delle persone in difficoltà mi gratifica e col tempo ho cercato di aumentare la mia presenza in mensa, pur continuando a portare vestiti a Zineb, l’operatrice che si occupa dello smistamento indumenti. Sia durante le giornate di riordino che negli incontri informativi che periodicamente organizzo parlo di come sia possibile non accumulare né necessariamente buttare ciò che è in buono stato.

La scelta consapevole sta nel tenere cosa piace e donare il resto!

Così facendo si dà a tutto ciò che è riutilizzabile un’altra opportunità, che è anche lo slogan di “Lazzaro”, la boutique vintage delle Caritas che raccoglie e dona nuova vita ad abiti e accessori.

Giacomo e Paolo sono i ragazzi che curano questa perla rara nel centro della città, valorizzando con passione abiti e accessori vintage che provengono anche dagli armadi di RiordinAri. Ho fatto della mia passione e dei miei valori un giusto mix che mi porta tanta felicità!

Viva il riuso, la solidarietà, la cura e la gentilezza! 🎁

Storie dalla Caritas – Lazzaro!

Alzati e cammina!

Ok, ma prima di uscire come mi vesto?

Nelle ultime settimane siamo andati in crisi un po’ tutti, per via della classica mezza stagione, quella che “non esiste più”, ma che ogni anno, con il suo clima invernale ed estivo a giorni alterni, ci ricorda il disagio di dover adattare il nostro guardaroba ad ogni evenienza.

Se scegliere cosa indossare risulta complicato, scegliere cosa NON indossare è invece spesso più facile, e da qualche mese a Rimini può essere anche più etico.

L’8 Dicembre scorso ha infatti riaperto Lazzaro!, la boutique vintage della Caritas che si occupa di raccogliere e selezionare abiti, accessori e oggettistica/antiquariato di qualità allo scopo di rivenderli e dare loro “nuova vita”, per sostenere col ricavato diversi progetti di assistenza sociale.



Nell’ultimo mese
 in particolare, per far fronte allemergenza Ucrainasono stati finanziati più di 300 posti letto, aiutando la Caritas di Rimini ad accogliere tantissimi profughi.

Il negozio si presenta come una vera e propria boutique, ricca di dettagli e rimandi alla cultura pop del passato e contemporanea, fornita di abiti adatti a tutte le età e per ogni occasione.

Da quando ha riaperto, Lazzaro! ha preso contatti con diverse realtà del territorio per valorizzare le donazioni. Per esempio sono stati effettuati alcuni shooting fotografici collaborando con gli studenti dell’università di Pratiche e Culture della Moda di Rimini, inoltre gli abiti Lazzaro sono stati utilizzati per la realizzazione dell’ultimo corto prodotto dal giovanissimo Arkadia Studio, e per i visual dell’ultimo brano dell’artista Damiank.

L’attività viene portata avanti da diversi volontari. Al nostro arrivo ci ha accolti Paolo:
«Uno degli aspetti più soddisfacenti è vedere come i clienti si stupiscano del fatto che sia un negozio della Caritas. Ricercare un’estetica fresca e ricca di stimoli era una della nostre priorità, ma soprattutto ci sono tantissimi abiti di qualità, magari di sartoria o pezzi unici di marchi prestigiosi. È importante spiegare ai clienti il processo e la filosofia che sta alle base del negozio, altrimenti alcuni potrebbero diffidare della provenienza dei capi, visto che i prezzi sono comunque molto contenuti rispetto al loro reale valore.»

Oltre a raccontarci le dinamiche della boutique, i volontari hanno voluto sottolineare come è importante che si parli di Lazzaro!
Progetti di economia circolare come questo infatti, possono essere alla base di una nuova cultura sociale dal forte potere comunitario, i cui valori trascendono da qualsiasi ideologia, religione, e distanza generazionale. 

«Ridare valore agli abiti usati non solo è intelligente, ma necessario per il nostro benessere, dal momento che il pianeta da preservare è la casa di ognuno di noi.» racconta Giacomo, uno dei responsabili. «Il legame che si crea tra la persona che dona il capo e la storia che racconta è ciò che più mi affascina, ed è ciò che cerco di raccontare poi a chi viene a trovarci. Per esempio, una signora ha raccontato la storia dietro a un bellissimo tubino degli anni ’60 che conservava gelosamente nell’armadio, con il quale conobbe quello che sarebbe diventato poi suo marito.

Il fatto che questi abiti possano acquisire nuova vita e che le storie possano essere tramandate, aumenta il valore del capo stesso e arricchisce chi lo acquista.

«Siamo molto soddisfatti del lavoro svolto e dei risultati raggiunti finora, ma per poter mantenere alto il livello del negozio abbiamo un costante bisogno di supporto e donazioni. I nostri clienti se ne vanno soddisfatti e con molti di loro si è creato un bel rapporto, anche questo ci motiva a far crescere il progetto. Aiutateci, spargete la voce, venite a trovarci! Insieme si può davvero fare la differenza e raddrizzare qualche stortura della nostra società, aiutando chi ha bisogno.»

Storie dalla Caritas – Emporio Solidale

Il portamento di Pierangelo è fiero, bello dritto sulla schiena e nella luce dei suoi occhi. Si sostiene su un bastone da passeggio. 

Spero di aver lasciato qualcosa di simpatico, di bello. Mi sentivo un po’ emarginato, visto quello che mi era capitato. L’emporio, oggi, è diventato la mia famiglia

Si sa, parlare di sé è difficile e, in certi casi, anche scomodo. Soprattutto se ci si trova in un momento di disagio.

È difficile ammetterlo, accettarlo, reagire. Eppure capita a tutti di avere bisogno di un aiuto.

Così di fianco a Piero c’è Patrizia. Racconta che all’Emporio Solidale è di casa. Lì ha ritrovato tante persone pronte a condividere storie di vita, consigli, idee.

Cose che danno di nuovo un nome al suo volto. 

L’Emporio di Rimini è un luogo d’incontro, di scambio, di pianti ma per lo più sorrisi.

Incontrare la fragilità, la povertà delle persone non è facile, richiede un’empatia che a Miranda è universalmente riconosciuta.

Sarà lo sguardo, la gentilezza, la voce calda, o il fatto che sia la prima a raccontare di sé, mettendo gli ospiti nella posizione di potersi aprire. Significa abbattere un muro.

In una parola, accogliere.

Pierangelo è una persona di quelle che ti tirano su il morale con quattro parole. Che hanno inciampato, ma con la voglia di fare una capriola e ritrovarsi in piedi.

Sono venuto qui oggi per raccontarvi di me, non lo avrei fatto se non fossi affezionato a questo posto, alle persone che ritrovo ogni volta che passo”.

Patrizia ci racconta che per lei l’Emporio è stata una sorpresa:

Non è ricevere il solito pacco alimentare, ma si viene accolti in maniera molto calda e soprattutto si viene ascoltati.

Quando vengo a fare la spesa sono contenta, perché mi riconoscono.

Chiedere aiuto non è così semplice, qui invece è come essere al supermercato.

Sentirsi chiamati, riconosciuti, voluti bene, troppo spesso, è quello che manca.

Quando si vive un momento di fragilità è facile pensare di non avere nessuno, si entra nel tunnel della solitudine, ci si sente insignificanti per il mondo. 

In posti come l’Emporio l’errore più grande è quello di definire dei ruoli: responsabile, volontario, utente, donatori.

Chiunque varca la soglia del negozio porta qualcosa di prezioso, indipendentemente dai propri bisogni. 

Uberto, pensionato, dice che nella vita ha dedicato troppo tempo al lavoro, ora si dedica agli altri, e probabilmente anche a sé stesso, colmando quel vuoto lasciato da scelte fatte in passato, che forse, con il senno di poi, sarebbero state diverse. 

Paola è memoria storica dello spazio: volontaria dal 2016, sempre sorridente, piena di energia. La cosa più bella dell’Emporio, secondo lei, è lo spazio giochi per i bambini.

Le mamme e i papà che vengono a fare la spesa con i figli, possono lasciarli giocare all’ingresso, e io passo volentieri del tempo con loro.

Credo sia un modo bello per rispondere alla necessità di fare acquisti in serenità, e al contempo per i bambini di sentirsi in uno spazio accogliente. Mi sento bene quando gioco, mi fa sentire viva.” 

Ognuno di loro fa parte del mio cuoreconclude sorridendo Patrizia, prima di andarsene.

Anche tu fai parte del loro cuore, Patrizia, questo è sicuro.

 

 

Altre storie dalla Caritas? 

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Graduatorie progetti Servizio Civile Universale Bando 2021

Sono state pubblicate le graduatorie relative alla selezione dei candidati ai progetti di Servizio Civile Universale della Caritas diocesana di Rimini.

Nelle graduatorie sono elencati i candidati selezionati, non selezionati, non idonei e non presenti al colloquio (fatte salve le verifiche che verranno effettuate dal Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile).

Clicca sulla graduatoria che ti interessa consultare:

Storie dalla Caritas – La locanda 3 angeli

locanda tre angeòo caritas rimini

Nella sala per le colazioni c’è sempre musica. Battisti, Dalla, Guccini, suonano dal cellulare di Mario, che è intento a preparare latte, caffè e biscotti per i “ragazzi”, come li chiama lui. 

La musica mette di buon umore, riempie quel vuoto che ogni mattina potrebbe prevalere in una grande sala d’albergo frequentata a turno da persone che hanno sofferto tanto nella vita, ma che provano a rialzarsi. 

Gli ospiti della Locanda 3 Angeli sono 25, in maggioranza uomini e di mezza età. Qui trovano riparo da Novembre a Maggio, per affrontare i mesi più freddi e difficili dell’anno con un tetto sopra la testa.

È il secondo anno di attività per la Locanda, un albergo sul lungomare di Torre Pedrera che la famiglia Angeli ha voluto locare alla Caritas, per contrastare l’estrema povertà di chi non può permettersi un alloggio. 

Quando dormi fuori, in strada, che passa la gente e ti guarda un po’ di traverso, lo so, non è bello” dice Cristiano. “Qui almeno si riesce a vivere una vita normale”. 

Si condividono momenti di vita quotidiana, difficoltà, storie di vita. Insieme si fa fronte a quei processi complessi che la vita richiede ma che senza una rete non è semplice compiere. Lo SPID, l’ISEE, la Carta d’Identità Elettronica, … Ognuno aiuta come può. 

Le stanze hanno il bagno e la tv in camera, non mancano gli spazi comuni e nemmeno il WI-FI libero. Serve questo per ridare dignità. È giusto così. 

Alcuni, in Locanda, rimangono dei mesi, o degli anni. Altri solo qualche settimana. 

Wilma, la responsabile, racconta di un’assistente familiare che aveva perso il lavoro e si era trovata in mezzo alla strada. Dopo qualche giorno finalmente ritrova il sorriso.

Ho trovato una famiglia che ha bisogno di me” dice. “Domani passano a prendermi. Posso chiederti un favore? Mi vergogno a dire che sono ospite della Caritas. Puoi fare finta che questo sia un albergo normale?

Il giorno dopo Wilma ha fatto chiamare Natalia dalla Reception, le chiede la chiave della stanza, la aiuta a caricare i bagagli.

Sono queste le storie più belle. Non ho fatto niente di speciale, ma per lei è stato davvero significativo”.

La vera povertà è la solitudine, chi viene in Locanda spesso non ha una rete solida di persone sulle quali contare. E la vita esclude chi è solo. 

Dare un riparo a chi non ce l’ha è ridare fiducia alle persone, dare una nuova possibilità di riscatto. 

Incontrare la marginalità è come farsi una doccia fredda nella realtà della vita. Nessuno può meritarsi di non avere un alloggio. 

Mario, uno dei referenti, ogni mattina quando è bel tempo si fa una passeggiata al mare. Cammina 200 metri in avanti e si trova sulla spiaggia e quando il sole è alto apre un libro, si siede e legge. Poi torna alla locanda.

La gente è buona” racconta. “Spesso vado al bar, o al forno, appena dico che voglio prendere qualcosa per chi non ha nulla mi regalano vassoi pieni di cibo. I vicini ci salutano sempre. Certo, a volte i ragazzi trovano da dire, ma è normale no?”.

Abbiamo fatto Capodanno insieme. Una cena di pesce, c’erano tutti. È stato un momento di grande umanità. Il ricordo più bello che ho della locanda è proprio la normalità di quella serata, la voglia di stare insieme, di festeggiare. Penso che i ragazzi se lo meritino.” conclude Cristiano. 


Caritas Diocesana Rimini
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