Celle Aperte – Testimonianze dal Carcere

 

Mercoledì 10 agosto le sezioni ordinarie del carcere di Rimini hanno aperto le porte a nuovi ospiti esterni.

Eccezionalmente, grazie al Direttore d’Istituto Maria Martone e al supporto dell’Area Educativa, del corpo di Polizia Penitenziaria e del Cappellano d’Istituto Don Nevio, è stato possibile per una ventina di volontari da tempo impegnati all’interno della Casa Circondariale accedere alle celle e trascorrere una mattinata assieme ai detenuti.

Una giornata cui ci si preparava da tempo: un momento delicato ed emozionante, che ha visto il lavoro sinergico e la collaborazione di tutti: detenuti, operatori e volontari delle tante realtà di espressione diocesana che animano la casa circondariale e gli operatori del Terzo settore.

Abbiamo chiesto ad alcuni volontari di raccontarci la loro esperienza: Michela, Ilaria, Paola e Chiara hanno accettato l’invito, di seguito le loro testimonianze.

Le testimonianze

Michela de Lisa


Quando è arrivato il momento di andar via, a fine giornata, ho provato una sensazione strana… mentre riprendevo il mio cellulare dall’armadietto dopo diverse ore, qualcuno esclamava: «Mi sembra di essere stato qui un mese!». Ritornare nel mondo ‘reale’, quello al di là della pesante porta color verde bosco, mi stava costando un po’ di fatica.

La giornata era volata via in tutta fretta ma, frattanto, il tempo si era come fermato.

Un po’ come succede, in fondo, a chi al di qua della pesante porta verde bosco ci abita. Il fuori e il dentro, con il loro scorrere del tempo cosi disallineato e i loro mezzi cosi dissonanti, si incontravano su quell’uscio. Un po’, pensavo, come deve succedere a chi, presto o tardi, smette di abitare quelle mura. Ed io, dal mio canto, ero come rimasta incastrata li: occhi negli occhi e orecchie nei cuori. Ho capito che, in quelle ore, in quelle mura che in parte alcuni di noi conoscono così bene, i nostri due scenari speculari si erano mescolati. Il mondo esterno con le sue remore o quello interno con le sue contraddizioni, seduti alla stessa tavola. Curiosità che diventa conoscenza e timore che si trasforma in consapevolezza. Avevo gli occhi pieni di sguardi, le orecchie piene di storie e il cuore pieno di accoglienza (e lo stomaco pieno di piattoni deliziosi). E li, sulla soglia del mondo esterno, io provavo un po’ di nostalgia. Fermavo tra i ricordi istantanee vivide di momenti intensi e preziosi come quando si ripone in libreria un libro concluso che ti ha tirato un pezzetto di cuore e da cui ormai è tempo di separarsi. Tornata a casa, ripensavo a due delle frasi che mi hanno colpito di più tra le tante donate da chi ci aveva accolto nella propria dimensione. Erano più o meno così: «oggi è stato come non essere in carcere» e «se ci fossero più giornate come questa, sarebbe tutto in discesa qui». E mentre mi ripetevo le parole ascoltate mi accorgevo di quanto fossero incredibilmente affini a ciò che provavo io stessa, ospite per un giorno di un mondo altro che vive all’ombra di tutti noi, abitato da un loro che si contrappone a un noi. Perché, in fondo, sono giornate come quella vissuta il 10 agosto a liberarci. È la conoscenza ad affrancarci dalle sbarre del pregiudizio, è la consapevolezza a spezzare le catene della paura; sono la condivisione, il dialogo e la mutua comprensione ad unirci e a guarirci dalla sfiducia e dal risentimento che ci imprigionano. Per questo, auguro a tanti di poter vivere esperienze di questo tipo. E provo una immensa gratitudine nei confronti di chi, dall’esterno e dall’interno della Casa Circondariale di Rimini, ha reso possibile vivere Celle Aperte. Qualcuno mi ha chiesto cosa avessi provato nel visitare il carcere, riferendosi alla sua parte di solito invisibile e nascosta anche a chi, come me, ne visita spesso tutto il resto. Insomma, che impressione ho avuto nel visitare e abitare per qualche ora le celle. La verità è che le celle, i corridoi, le sbarre e tutte quelle cose ‘segrete’ che di solito animano la nostra curiosità quel giorno, per me, sono rapidamente passate in secondo piano. Certo, è di sacrosanta importanza osservare e avere contezza di ciò che di solito idealizziamo, condanniamo o su cui fantastichiamo.

Però io, quel giorno, ho posato lo sguardo su chi il carcere lo abita e lo vive.

Nella sua quotidianità perfettamente scandita, tra le storie, le lingue, i bisogni, le paure, i desideri, la solidarietà. Stretti attorno agli stessi tavolini a guardarci e poi vederci, riconoscerci e poi conoscerci, ci siamo sentiti tutti un po’ a casa.
L’accoglienza e la grande ospitalità che tutti noi abbiamo ricevuto in dono quel giorno ci hanno emozionato e permesso di sentirci a nostro agio, e oggi mi comunicano due cose molto importanti: la gratitudine verso chi si spende per donare accoglienza e disinnescare la pericolosità degli stigmi e, cosa (forse) più importante, la fame di riscatto e riconoscimento. Poiché chi abita giorno e notte i piccoli spazi blindati di cui siamo stati ospiti non è né una vittima da accudire né un “caso perso” da sopprimere. Abbiamo la responsabilità e la scelta, in quanto esseri umani prima ancora che cittadini portatori di diritti, di accogliere la richiesta di riconoscimento, dignità e rispetto di chi “paga il suo debito con la giustizia”. Fermiamoci a guardare, per un istante, negli occhi dell’altro scomodo: intravedremo noi stessi.

 

Chiara Fabbri


Da circa un mese sono una volontaria nella Casa Circondariale di Rimini e il 10 agosto ho preso parte a una giornata con i detenuti della Quinta Sezione – Braccio Corto, che detta cosi fa quasi sorridere. Non chiedetemi di raccontarvi cos’è stato salire quelle scale, oltrepassare quei cancelli, sentire voci, incontrare vite e incrociare sguardi. Credevo di non averne il coraggio. Non vi racconto l’odore, il calore, il cibo, le sbarre, le finestre schermate. Il peso di vite come tante, eppure così diverse: tanti corpi, troppe ossa, troppi umori. Cellule che si aggregano in universi di solitudine. I giorni – tanti giorni – sempre uguali. Non vi racconto i sorrisi bucati dal tempo, le parti fragili, i dubbi, il cercare di sopravvivere alle proprie crepe. Le aspettative infrante, i vuoti senza risposte, il tirare avanti nonostante i pesi che salgono e l’umore che scende.

È una strana materia quella di cui è composta il carcere: c’è un prima, un dopo, e c’è un dentro che dovrebbe preparare al fuori.

Come un bambino che si prepara a nascere o magari a rinascere. Come sono rinata io una volta uscita – dopo un solo giorno -, per tutto lo spazio che ho cercato di farmi entrare dentro, oltrepassato l’ultimo cancello che al mattino era stato il primo. Non posso nemmeno immaginare la sete di aria, luce e vita che può avere una persona quando esce dopo anni. Non chiedetemi se queste parole hanno un senso o raccontano una storia. Quando raccolgo parole dalle pieghe di un’esperienza spero solo che tutto si senta e riviva. Non sono brava a raccontare, ma posso dire che entrare in un carcere – un carcere di celle e di sbarre – lascia i lividi. Inciampi nella vita di qualcuno e ti rimane il segno.
Vorrei irrigare di sensatezza i pensieri e lasciar parlare la pelle per dirvi che ho ascoltato, accolto e ringraziato, ho contemplato, condiviso, mi sono lasciata attraversare…ho riso, vibrato e lasciato andare… sono rimasta in silenzio, senza finzioni. Mi sono sentita e mi sono commossa. Mi è piaciuto.
E sapevo che era bene cosi. In un luogo dove l’anima rimane a guardare, l’attenzione è l’unica preghiera che ho saputo recitare. Ad una principiante della preghiera come me, l’unica cosa che interessa è permettere al cuore di contemplare. E imparare davvero ad accogliere il bene.
Forse è questo ciò che intendo per fede: quella che rinnoviamo anche nella cattiva sorte, che ci tiene legati ai luoghi; quella sensazione forte di appartenenza che ci fa tornare a dire “qui” anche quando il buonsenso chiamerebbe altrove. Se fosse qualcuno dei ragazzi dentro a chiedermi, ora, com’è andata, prenderei in prestito parole lette non ricordo dove: “Siamo friabili e pervasi di grazia”. Di quella grazia dignitosa che appartiene a tutti nei momenti di reale sofferenza, quando la vita confonde la disperazione e la speranza. Perché mentre camminavo per le Celle Aperte di quei corridoi, che sanno di abisso e cibo stracotto, mi sono resa conto che quel posto può essere la casa di tutti: degli inquieti, degli scappati, di chi sa pregare e di chi sta imparando a farlo. E quindi è anche casa mia.

 

Ilaria Cicchetti


Entrare in carcere significa atterrare su un altro pianeta, con regole diverse, abitudini diverse, volti e voci diverse da quelle a cui siamo abituati. Perfino l’aria e il tempo hanno un diverso peso e una diversa scansione qui. Ho l’impressione che per comprendere a pieno il posto in cui mi trovo io debba imparare una nuova lingua: si parla di bracci, di sezioni, di celle, di domandina, di autorizzazioni, di burocrazia, di aria…

Il rumore metallico delle chiavi si lascia dietro l’eco di voci in lontananza, che risuonano e si rimescolano nel grande corridoio della sezione 1.

I detenuti escono dalle loro celle incuriositi. Ho cercato di tenere a mente quanto ci è stato detto un minuto prima: qui dentro siamo ospiti. Provare a pensare di essere a casa di qualcun altro è utile. Prima di entrare in una cella si chiede il permesso; prima di dare del tu ad una persona più anziana si chiede il consenso; prima di porre domande intime si deve raggiungere un rapporto confidenziale. Sono queste attenzioni a dare ordinarietà ad una situazione che esula dall’ordinario, a restituire ad un detenuto la dignità che a volte dimentica di possedere. Sono queste piccole forme di rispetto che fanno dei ragazzi della cella 3 e di me persone più vicine di quello che potrebbe sembrare. Atmosfera di festa; a volte ho come l’impressione di ritornare al refettorio dove pranzavo alle elementari, caotico e pieno di gioia. Ci sediamo a tavola e la premura che i detenuti hanno nei nostri confronti è impressionante. C’è una grande lezione dietro ad una tavola apparecchiata a dovere nonostante il legno rotto della gamba; dietro all’assicurare i pochi sgabelli ai propri visitatori; dietro alla condivisione della propria vita con un estraneo. Sono riuscita a captare due odori dominanti durante la giornata: tabacco e sapone. Questi due profumi mi dicono qualcosa: che qua dentro occorrono distrazioni, e che ricevere visite può spingere alla cura di sé e del proprio ambiente. Non credo si racconti abbastanza quanto sia importante mettere in dialogo il mondo del carcere con quello esterno. Non c’è stato un attimo in cui io mi sia ricordata di avere più di quattro porte chiuse a chiave alle spalle. Io sono consapevole che un detenuto che vive da anni in reclusione ricordi a se stesso più volte di quelle porte. Sono consapevole del dolore profondo che un uomo possa sperimentare quando vede che la sua vita precipita dentro queste mura. Tuttavia non abbandono l’idea per cui le relazioni possano costruire ponti, e se anche per un solo istante fossimo riusciti a fare dimenticare a chi il carcere lo vive ogni giorno di quelle quattro e passa porte di distanza dal mondo esterno, allora l’esperimento di Celle Aperte potrebbe dirsi riuscito. Potrebbe essersi creato qualcosa di grande, uno sguardo (seppur momentaneo) libero sulla propria vita, edificato attraverso l’incontro tra detenuti e volontari. Il regalo più grande che sia noi che loro possiamo portarci a casa.

 

Paola Eletta Galasso


Un San Lorenzo speciale il mio 10 agosto 2022. Lo ricorderò sempre: atteso con trepidazione. Saremmo entrati nelle “case” dei nostri amici detenuti. Alcuni già da noi conosciuti, perché partecipanti ai nostri incontri di lettura “dentro le pagine” o al cineforum “Cinema d’evasione”, altri, volti nuovi.
L’incontro “fuori” con gli altri volontari è fissato per le 8.45 e poi “dentro” per iniziare la nostra giornata speciale. Dopo i corridoi già conosciuti, saliamo le scale ed entriamo nella sezione. E subito ci accoglie un ospite inappuntabile che ci introduce alle criticità della sezione (purtroppo proprio in quelle ore testimone di un episodio molto triste) e ci conduce nelle celle cercando di farci “scivolare” oltre le situazioni difficili. Un ottimo padrone di casa che ci tiene comunque a fare una bella figura con i suoi invitati. E così entriamo in una cella che scoprirò ospitare un detenuto dalla immensa cultura. Originario di uno stato della ex-Jugoslavia ci ha subito fatto vedere i suoi numerosissimi quaderni pieni di riflessioni, nozioni, appunti di geografia, di storia: fogli pieni di una bellissima calligrafia, pieni di vita, di sapere. E così a seguire, si avvicendano volti curiosi di conoscere questa novità nella loro altrimenti immobile giornata. Tanti volti, tante Persone, tanti uomini; ci sediamo tutti insieme nel corridoio e ci raccontiamo e si raccontano…come essersi sempre conosciuti. Non manca il “momento caffè”: un caffè speciale con la “schiumetta e la scorza di limone”. Eccezionale! Quanti racconti, quanta dignità, mai un piangersi addosso. E poi è il momento del pranzo che consumiamo nella cella che ci ospita: un pranzo che si trasforma in un momento di condivisione di desideri, sogni, consigli di luoghi da visitare nelle proprie terre di origine, racconti di svariate esperienze lavorative. In breve, quasi dimentichi di essere in un carcere e diventa un pranzo tra vecchi amici.
E così, troppo velocemente, è passata la mattinata. Alle 13 scendiamo negli spazi comuni. Possiamo scegliere se restare nella cappella, adibita a “locale” dove suonare la chitarra e cantare qualsiasi tipo di canzone (il “karaoke” come è stato definito dai detenuti), o andare fuori, “all’aria”, nel campo di calcio dove si sta disputando una partita degna dei più bei film di Salvatores, o in un altro spazio dove fare due chiacchiere tranquille. C’era un gran movimento. È stato bellissimo vedere questi ragazzi vivere tutte le situazioni “offerte”. Io personalmente ho trascorso queste ore con uno di loro che ha voluto farmi da Cicerone e, contemporaneamente, mi ha raccontato il motivo per cui è lì. Un ragazzo dai modi signorili, grandissima educazione, grande cultura e voglia di “conoscenza”. Alle 15 i nostri amici salgono per una mezz’oretta nelle celle e noi volontari ci ritroviamo in chiesa per trasmetterci qualche riflessione. Ma poco dopo cominciano ad arrivare, numerosi, i detenuti e allora decidiamo di spostare tutte le panche per dare inizio ad un importantissimo momento di condivisione e comunione, tutti insieme, detenuti e volontari. Il titolo che vorrei dare a questo incontro è GRAZIE. Un grazie unanime da parte dei detenuti a noi per aver reso “diversa” e più viva la loro giornata e un grazie altrettanto collettivo da noi a loro per aver riempito il nostro cuore di emozioni. Bello sentir dire da molti di loro “Sarebbe da ripetere con più frequenza!”. Questa frase ha fatto crollare i nostri timori del giorno precedente.